Ricordo di Irma Bandiera (R. Viganò)
Un giorno, il 7 agosto 1944, le mani di quella gente da galera afferrano il suo corpo, credevano, battendo a sangue la carne tiepida e pura, di spaventarne l'anima. Rimasero sconfitti, con i loro brutti visi arrabbiati. Le stavano sopra, la picchiavano, la torturavano, e lei zitta.
Ognuno di loro inventava una cosa nuova per farle del male, se ne gloriavano l'un l'altro del loro talento, ma lei zitta. Quei nomi di compagni, di dirigenti, di responsabili che essi volevano tirare fuori dalla sua bocca, rimanevano lì, sconosciuti, inafferrabili, in mezzo agli urli e ai lamenti. Erano poche sillabe, e avrebbero denunciato tanta gente; i torturatori le promettevano la libertà, la salvezza, in cambio di quelle poche sillabe.
Ma la piccola Irma non diceva niente, in mezzo ai suoi lamenti. Si augurava di morire, che facessero presto d'ammazzarla, per smettere di soffrire. Gridava quando di dolore era più grande della sua forza, però non diceva niente. E Tartarotti e gli altri come lui, che prendendola si sentivano sicuri di un grande bottino attraverso le sue parole, ecco, erano sconfitti.
Lei moriva, l'avevano ammazzata inutilmente, chiudeva gli occhi con gioia, dopo tanto male, e non aveva detto niente. Si trovavano con questo cadavere di ragazza, non sapevano dove metterlo, un dolce corpo giovane, un bel viso morto. Non sapevano più cosa farsene, adesso; l'avevano ammazzata a furia di torturarla, lei non aveva detto niente. La più ignominiosa disfatta della loro sanguinante professione si chiamava Irma Bandiera.
Tratto da: Renata Viganò, Una piccola grande donna, in: "Pattuglia", 4 (1951)