Giornalismo a fumetti di Andrea Plazzi
In parte, la novità è che non c'è niente di nuovo.
Non è da ieri che il fumetto racconta la realtà per sé, senza limitarsi ad attingervi ispirazione per trame e personaggi, come si fa per raccontare storie, da Omero in poi.
L'Italia degli anni Settanta è stata all'avanguardia nell'uso del fumetto per proporre la storia e la cronaca (con serie come L'Inviato nel tempo, La parola alla giuria, e innumerevoli "liberi", tutti dello stesso autore, il precursore Mino Milani), con una grande varietà di registri: inchiesta giornalistica, denuncia civile, approfondimento storico, vera e propria educazione civica. Il tutto accomunato da uno scrupolo e da una preoccupazione didattica chiaramente percepibile nell'elevata qualità della scrittura e del disegno, nel lavoro di documentazione e nel rispetto assoluto del lettore. Nell'atmosfera culturale di quegli anni "intrattenimento di qualità" poteva sembrare un ossimoro ed è anche grazie a quelle intuizioni in ambito fumettistico che oggi descrive un obiettivo legittimo di qualsiasi prodotto culturale.
In parte, la novità è anche che c'è almeno una cosa nuova, anzi due: normalità e consapevolezza.
Senza più nulla da dimostrare a pedagoghi, educatori o genitori un po' apprensivi, il fumetto semplicemente si propone come linguaggio autonomo con cui raccontare, descrivere, indagare, informare. È quindi normale che alcuni autori lo scelgano per parlare, tra l'altro, di conflitti, traffici, guerre civili. Di una giornalista coraggiosa eliminata dall'arroganza del potere, di bombardamenti NATO nel cuore dell'Europa, di fiaschetterie balcaniche o di mercati delle pulci in sperdute cittadine della Vojvodina.
Sono poi scelte deliberate, effettuate da autori consapevoli per i quali il fumetto è un linguaggio elettivo, specialmente quando molti di essi - giornalisti, scrittori, illustratori - potrebbero esprimersi in altro modo. Scelte che per definizione sono autoriali - una categoria creativa probabilmente superata da tempo ma utile a intendersi - per opere che corrono un forte rischio di apparire come ibridi penalizzati dalla difficile classificazione, anche in senso strettamente bibliografico.
E dalla relativa collocazione sugli scaffali: sono "fumetti" o "libri"? In quale settore dovremmo trovare una biografia a fumetti di Adriano Olivetti? E un'inchiesta sull'incidente alla Thyssen Krupp? O sulla questione TAV in Val di Susa?
"Graphic Journalism" è un'etichetta di conio recente per un filone al quale si ascrivono i lavori di autori come Joe Sacco, Aleksandar Zograf, Ted Rall e molti altri, attivi da molti anni per raccontare, descrivere, approfondire la realtà. Alcuni di loro sono considerati giovani maestri e alcune delle loro opere capolavori. Un fatto di per sé non importantissimo (ci saranno sempre dei capolavori, in qualsiasi ambito della creatività umana) ma significativo: esistono persone di enorme talento che si esprimono in questo modo, producendo opere che meritano di essere lette da un grande pubblico e che dovrebbero essere presenti nelle biblioteche pubbliche.
E "Giornalismo a fumetti" sarebbe un buon nome per lo scaffale sul quale vorremmo trovarli.
Andrea Plazzi