Caffè della Fenice - Bottega del fumista

via Santo Stefano, 15. Bologna

Via Santo Stefano n. 15: un androne sotto il portico del palazzo antico, un cortile acciottolato dove entrano traballando carretti colmi di vecchie stufe, tubi, ottone tra cui sgusciano, corrono, saltellano i topi. In fondo, in un vasto e lungo corridoio, vi è la esposizione delle stufe; stufe di tutti i tipi ed epoche: l'americana, la parigina, l'economica ...

(A. Montanari Baldini, La bottega del fumista, in: F.I.L.D.I.S., Cenacoli a Bologna, Bologna, Parma, 1988, p. 151)

Chi camminando sotto i portici di piazza Santo Stefano, all'angolo con vicolo Pepoli, si fosse imbattuto, all'inizio dell'800, nel Caffè della Fenice, avrebbe stentato a riconoscerlo:

A prima vista diresti una merceria, od uno spaccio di sigari, ma dai numerosi cartelli che scorgi d'attorno ti è forza dire che è un caffè. Difatti un rozzo e smunto cartello, ti dice in lettere fra l'indiano e l'ebraico Caffè della Fenice.

All'esterno c'erano due panche di legno "mal curate e vecchie", alcune sedie di pioppo e un tavolino tondo. Una piccola e dimessa bottega. Nulla che facesse pensare a un covo di cospiratori liberali.

Nel 1857 il Caffè era condotto da Emilio Cappelli, di Amedeo, assieme alla moglie Claudia Poggioli. Negli ultimi tempi del governo pontificio qui si riuniva il Comitato segreto della Società Nazionale. Ne facevano parte il marchese Luigi Tanari, Camillo Casarini e Pietro Inviti. All'interno c'era un'ampia sala per gli avventori, con "un aspetto mezzo tra il club e la taverna". Dietro c'era la stanza da pranzo per la famiglia del taverniere, alla quale erano ammessi coloro che non trovavano posto nella bottega. In fondo a questa, oltre una specie di arcata con gradini, nascosta da un pesante tendone ...

si entrava in una stanza ... tapezzata di mussola gialla chiara, imbottita e incorniciata, per ornamento, da un grosso cordone di lana rossa che andava a fare una grossa croce nel soffitto pure imbottito. In terra una stuoia, detta da marroni, con intrecci di paglia colorata, con la finestra chiusa con un telaio della stoffa gialla delle pareti, imbottita in modo che non si potesse sentire alcun rumore. Guardando alla tappezzeria, dietro ad una carta geografica dell'Italia, si vedeva il segno di una porta che si apriva con un uscio, pari al muro, sul cortile della casa posta nel vicolo Pepoli all'attuale n. 2.

Nel caso di una irruzione della polizia austriaca, questa porta avrebbe consentito ai patrioti di svignarsela attraverso le rovine del teatro Zagnoni, bruciato in epoca napoleonica e mai più ricostruito. A pochi passi dal Caffè della Fenice c'era il quartier generale della prevista insurrezione, il palazzo del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, cugino di Napoleone III. Ancor più vicino, nel cortile di Palazzo Pepoli Vecchio, c'era il deposito di legname in cui Cesare Ghedini e Dionigio Marani raccoglievano armi e munizioni.

Nella notte del 12 giugno 1859 Gioacchino Napoleone Pepoli portò la notizia che le milizie austriache erano partite da Bologna. Sulle tavole del Caffè "un ragguardevole numero di piatti e di bicchieri dimostrò come la veglia fosse stata prolungata e come nell'attesa i convenuti avessero divorato un mezzo prosciutto".

La bottega del fumista

Il fondaco d'inverno fu sgomberato. I nuovi affittuari presero possesso dei magazzini nel maggio '98. Vennero a prendere le misure. Un falegname, loro conoscente, portò un giorno un mucchio di grosse lettere di legno. Le fissarono, con staffe di ferro, sull'ingresso. Diceva: FUMISTERIA.

In piazza Santo Stefano "si incominciò a udire, un giorno, il soffiare della fucina, il ronzio del trapano, il battere dei martelli sulle costole della lamiera". L'officina con negozio era stata aperta da due fratelli mantovani, fabbricanti di stufe, uno dei quali si trasferì poco dopo nello stesso stabile, con la moglie e "un bambinello nato da un mese".

Quel bambino, destinato fino alla vecchiaia a mantenere in vita la fumisteria, era lo scrittore Giuseppe Raimondi, che alla "benigna trappola di topi" della sua routine bolognese, seppe accostare la frequentazione dell'avanguardia letteraria italiana ed europea.

Raimondi fu sempre "un artigiano prestato alla letteratura; o meglio, uno scrittore e un critico prestato all'artigianato. In questo modo seppe fare della letteratura un mestiere e della scrittura un sottile lavoro di artigianato". E rimase poi anche artigiano delle stufe e dei termosifoni.

Il solido metallo a far da freno, quasi riferimento reale, alle ali della poesia e della scrittura, il negozio come fermo posta di una turbinosa corrispondenza con i letterati d'Europa.

Raimondi scriveva racconti con la stessa penna e lo stesso inchiostro con cui sbrigava il lavoro d'ufficio. Usava la squadra, il regolo calcolatore: "ed è curioso che essi, in fondo, non si trovassero a disagio coi libri".

Il pomeriggio nella fumisteria di Santo Stefano arrivavano gli amici. Innanzitutto Giorgio Morandi, conosciuto in casa di Bacchelli nel 1916 e rimasto vicino per sempre. Il pittore, reduce dal lavoro in Accademia, arrivava quasi ogni giorno in negozio e Raimondi lo accompagnava a casa: "via Gerusalemme, strada Maggiore, i Servi, fino alla Fondazza ... un itinerario suggerito da ignote ragioni del sentimento".

Bacchelli si fermava volentieri in bottega, ad ascoltare i proverbi di stagione recitati in dialetto dalla madre di Raimondi: "Avrell, tot i dé un barell ...". De Pisis arrivava da Ferrara con un panpapato di cioccolata per gli amici bolognesi e una cartella di suoi - ancora ingenui - disegni a china e all'acquerello, che chiamava pomposamente papiers collés.

A volte arrivava Bino Binazzi, letterato di valore, costretto, per vivere, a fare il redattore al "Resto del Carlino": "si prendeva il caffè. Le tazzine erano spaiate, una bella, di un vecchio Ginori. Qualcuna, di finto Giappone. Mio padre accendeva il suo virginia". Ogni tanto capitava da Roma, per scaldarsi alle stufe di Raimondi, anche Vincenzo Cardarelli, "con il cappotto sdrucito e l'aria povera".

Poi Leo Longanesi, conosciuto nel 1926, ai tempi della rivista "L'Italiano". Con Morandi formarono presto un trio asimmetrico, che non era raro vedere in giro per Bologna, alla sera, dopo le ore del lavoro. Il piccolo Leo era tenuto nel mezzo dai due amici più alti, che si scaldavano alle sue parole. Esse sembravano uscire, arroventate, non solo dalla bocca, "ma da ogni parte, dal cappotto, dal cappello, dalle tasche profonde ingombre di giornali".

Longanesi era un vulcano di progetti e di idee anche quando irrompeva nel negozio: "Si metteva in un angolo di tavolo, e prendeva a scarabocchiare qualcosa. Prendeva appunti, su ogni pezzo di carta, che trovava in giro ... parlava, un'ora di continuo".

Ma nel 1928 avvenne la rottura tra lui e Raimondi e cominciarono "vere persecuzioni e rappresaglie" condotte dalle pagine de "L'Italiano": il soldato Raimondi è dichiarato disperso dall'Armée du Reno; in un altro articolo "si dichiara deceduto il vecchio amico e compagno".

Un altro ospite assiduo della fumisteria era il poeta pittore Luigi Filippo Tibertelli, in arte Filippo De Pisis:

Era l'estate del '940. Si era per le strade di Bologna. Filippo alloggiava in un albergo sul fianco della via Rizzoli. Andavo a trovarlo di mattina. Appena uscito dal letto, cominciava ad agitarsi nella sua veste da camera a fiori. Oppure verso sera egli capitava nel mio negozio della piazza Santo Stefano. Ci si rivedeva la sera, dopo cena, al caffè.

Nel dopoguerra Morandi e Raimondi sono stati le due anime della cultura bolognese e il cenacolo di piazza Santo Stefano ha formato, assieme all'aula di Roberto Longhi all'Università, una generazione di intellettuali di alto livello: Giorgio Bassani, Francesco Arcangeli, Pier Paolo Pasolini, Antonio Rinaldi conoscevano bene il negozio di stufe.

Lo scrittore "divenne importante anche per i giovani artisti, che continuarono a scrivergli anche dopo la guerra, una volta lasciata Bologna, vedendo in lui un aiuto e una personalità aggregante". Tra essi ci furono l'architetto Leone Pancaldi, lo scultore Luciano Minguzzi, i pittori Alberto Sughi, Nino Bertocchi, Sergio Romiti.

Nella bottega del fumista entrava la pittrice Lea Colliva, che "sembrava una damina antica, così fragile, elegante, delicata". E poi ancora gli amici del teatro "La Soffitta", Romolo Valli e Folco Lulli; i giornalisti Giovanni Spadolini e Antonio Meluschi; gli storici dell'arte Giancarlo Cavalli, Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli, con i quali Giuseppe Raimondi condivise l'esperienza del carcere per antifascismo, nell'estate del '43.

Si camminavano insieme i portici eterni. Le parole, come i sogni di vita, cadevano dove vanno le nubi nel cielo.

Approfondimenti
  • I caffè storici in Emilia-Romagna e Montefeltro, a cura di Giancarlo Roversi, Casalecchio di Reno, Grafis, 1994, p. 90
  • Carlo Donati, Strada Nove. La via Emilia e le sue curve, Ancona, Affinità elettive, 2020, vol. 1., pp. 232-233
  • Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori, mostra di carteggi, Bologna, Museo civico 28 maggio-30 giugno 1977, Bologna, Alfa, 1977, p. 96
  • Anna Montanari Baldini, La bottega del fumista, in: F.I.L.D.I.S., Cenacoli a Bologna, Bologna, L. Parma, 1988, pp. 151-154
  • Maria Panetta, Nel segno del magistero longhiano, in: Atlante dei movimenti culturali dell'Emilia-Romagna. Dall'Ottocento al contemporaneo, a cura di Piero Pieri e Luigi Weber, Bologna, CLUEB, 2010, vol. 2., pp. 53-54
  • Giuseppe Raimondi, Mignon, Milano, A. Mondadori, 1955, pp. 34-35
  • Giuseppe Raimondi, La chiave regina, Milano, A. Mondadori, 1973, p. 61
  • Giuseppe Raimondi, La mia piazza, in: Cara, vecchia Bologna, fotografie di Beppe Zagaglia ; introduzione di Bruno Urbini, Modena, Artioli, 1975, pp. 56-60
  • Giuseppe Carlo Rossi, I caffè bolognesi centri di cospirazione, in: Il 1859-'60 a Bologna, Bologna, Calderini, 1961, pp. 112-114