Palazzo Loup

piazza Calderini, 4

Incontra Carducci al banchetto dato in loro onore dal “Resto del Carlino”, e pronuncia un altisonante brindisi in suo onore, chiamandolo “massimo e inviolabile Araldo dell’Arte e della Gloria”, ed aggiungendo: “Dicono che io sia un vizioso; eppure, voi lo vedete, Maestro, io non bevo che acqua". Carducci, che proprio in quel momento stava portando alla bocca del generoso vino rosso, esclama seccato: “Ed io non bevo che del vino!”. Gabriele cerca allora di nascondere l’incidente e di cambiare argomento, afferrando una mela e chiedendo a Carducci: “Gradisce, Maestro, questo rosso pomo? Guardi, è il pomo dell’aurora”, ottenendo per tutta risposta la laconica constatazione che a lui sembrava una semplice mela.

(A. Majani, Ricordi tra due secoli)

 

Il Palazzo Ghisilieri fu venduto all’inizio dell’Ottocento dall’ultimo erede della famiglia Calderini allo svizzero Emilio Loup, commerciante con l’inclinazione al mecenatismo. Egli fece allestire al piano nobile un elegante teatrino “fornito di comodo palco-scenico, di due ringhiere, e di tre palchi”. La sala “quadrilunga” fu affrescata “con ogni leggiadria dell’arte” dai pittori Badiali e Zaccherini, mentre delle scene si occuparono i pittori Ferri, Martinelli e Berti. Il sipario dipinto da Napoleone Angiolini rappresentava Il giuramento di Guglielmo Tell per liberare la patria.

Dal 1824 il teatro fu dato in gestione alla Compagnia dei Filodrammaturgi, diretta da Carlo Bruera, “benemerita società" di attori dilettanti impegnata a far progredire la “difficile arte della teatrale declamazione”. Durante il carnevale vi recitarono diciotto attori, tra i quali Alamanno Leonesi e Maria Castagnari.

Alle commedie si alternarono serate dedicate al canto lirico. Anche i cantanti e i musicisti della lirica, assistiti dal maestro Tommaso Marchesi, accademico filarmonico, erano dilettanti.
La sera del 30 dicembre 1827 venne messa in scena la commedia Il Boemondo del cavalier Baiardo, che meritò “universali encomi di lode”, mentre il 4 gennaio successivo gli “artisti di canto” diretti dal “Valentissimo” Marchesi si produssero nell’opera Il matrimonio segreto di Cimarosa.

Nel carnevale del 1829 si rappresentò ‘Giulietta e Romeo’ musica del maestro Vaccai col più grande successo ed al di là di quanto potevasi ripromettere da soggetti che per la prima volta si esponevano al pubblico. Fra gli artisti emerse in singolar modo per soavità di magica voce e buon canto la signora Ghedini contralto, nella parte di Romeo, ed in guisa da procacciarsene l’universale ammirazione. Nella primavera poi dello stesso anno, un’altra compagnia di dilettanti si produsse colla ‘Semiramide’ del maestro Gioacchino Rossini e questa pure con generale soddisfazione.

Dopo l’Unità d’Italia Palazzo Loup ospitò la Società della Guardia Nazionale, detta il Palladio, presieduta dal dott. Francesco Buratti. Dal 1 gennaio 1862 essa assunse il nome di Società Felsinea. Per entrare si pagavano due lire mensili. Vi erano permessi i giochi di passatempo e vietati quelli d’azzardo. Frequentato dalla borghesia conservatrice, il circolo era meno esclusivo di quello del Domino e fungeva da quartier generale del partito moderato.

La proprietà dell’immobile passò nel frattempo a Luigi Loup, nipote di Emilio, che sposò la figlia del nobile bolognese Pio Ghisilieri e fu un agronomo assai apprezzato, introdotto negli ambienti imprenditoriali della città.

Nel 1898 il direttore-proprietario del “Resto del Carlino", Amilcare Zamorani, promosse il trasferimento del giornale a Palazzo Loup, dove fu impiantato un moderno reparto fotozincografico. L’allestimento della nuova sede fu curato da Attilio Muggia e la disposizione razionale dei servizi da lui proposta ottenne un giudizio molto positivo: “Il nuovo stabilimento non ha rivali in nessuna città di eguale importanza”.

Al confronto con Piazza Cavour i nuovi locali sembrano così vasti che i dipendenti, “per orientarsi", chiamano uffici e corridoi via Zamorani, via Albertazzi, Largo Villani, Piazza Carboni e, in omaggio alla folla anonima dei redattori, Piazza del Popolo.

Il primo giorno di primavera del 1898 il “Carlino” fu stampato nella nuova sede dalla prima rotativa azionata in Italia da un motore elettrico, che forniva anche illuminazione a tutto lo stabilimento.

Inter...Mezzi e Resti

Nel 1885 Alfredo Testoni, non ancora celebre come commediografo, fu incaricato di scrivere per il “Carlino” un romanzone d’appendice, che egli intitolò Ma ... e che il critico del “Piccolo Faust” giudicò “uno zibaldone mal digerito”.

“Si presentava ogni sera in redazione , pochi minuti prima che il giornale andasse in macchina” e completava la sua puntata giornaliera, al prezzo di lire 2,50 per ogni appendice. Un costo che il giornale non avrebbe potuto tollerare a lungo. Fu così che Giulio Padovani, uno dei giornalisti fondatori, una notte che l’autore tardava all’appuntamento col compositore, inventò lui stesso il modo per terminare il romanzo:

Colto in agguato il protagonista, tac, gli allungo un colpo di accidente e l’ammazzo sul più bello dell’azione. Povero Testoni! Il romanzo restò lì, con immensa sorpresa dei lettori e di lui, che non ebbe neppure la forza di seppellire il morto.

Come risarcimento per questo tiro mancino, quando nel 1898 (o forse più tardi) Padovani lasciò il giornale, consegnò nelle mani di Testoni la sua rubrica preferita Sprizzi-azzi-uzzi, che divenne Inter...Mezzi e Resti.

Alfredo Oriani al “Carlino”

Alfredo Oriani approdò molto tardi, negli ultimi anni della sua vita, all’attività giornalistica. In precedenza espresse più volte il suo odio per i giornali. Alla fine, ormai convinto che i libri non gli avrebbero dato la fama che desiderava, si arrese a scrivere per il “Resto del Carlino". In circa dieci anni pubblicò alcune centinaia di articoli, che poi furono raccolti nei volumi Fuochi di bivacco e Punte secche.

Si sedeva a un tavolo per commentare, sul tamburo, la notizia del giorno, qualunque essa fosse: dal caso Dreyfus, al caso Murri, dalla rivoluzione bolscevica alla morte Zola, da un delitto passionale a un terremoto nel sud, da una crisi di governo a un’enciclica del Papa.

Oriani arrivò al “Carlino” nel 1900, lasciando il “Corriere", che gli aveva censurato un pezzo su Crispi. Anche a Bologna litigò diverse volte furiosamente, minacciando di andarsene, ad ogni tentativo del direttore Zamorani di fargli “abbassare i toni”, di indurlo a cambiare qualche termine troppo forte. Non tollerava che si mettesse mano ai suoi pezzi, voleva che fossero pubblicati così come li consegnava, errori ortografici compresi. Nonostante il suo carattere impossibile, ribelle a tutte le regole e le convenzioni, sapeva farsi voler bene dai redattori del giornale. Lo amavano in particolare Luigi Federzoni e Mario Missiroli, che chiamava i suoi “scolari da caffè".

Piombava rumorosamente al Carlino dando del tu a tutti e distribuendo in giri amichevoli manate e pittoresche contumelie dialettali, ciò che non impediva di mantenere in ogni suo atteggiamento una linea da gran signore.

Se ne andò all’improvviso, come forse era scritto, per un pezzo “mutilato” dal direttore di turno. Lasciò per sempre il giornale che gli aveva dato fama oltre i confini della Romagna e al quale lui diede, con i suoi articoli infiammati, grande prestigio.

Le proteste di Carducci

Giosuè Carducci collaborò a lungo con il “Carlino". Era legato da amicizia sincera con il direttore Amilcare Zamorani. In un momento di crisi del giornale comperò anche un’azione da 500 lire.

Mandò al “giornale della città" una quarantina di articoli, che furono poi riprodotti in Confessioni e Battaglie, oppure in Ceneri e Faville. La maggior parte furono proteste, come quella, rimasta famosa, contro l’agente delle tasse, o come quando gli attribuirono l’epigrafe del monumento a Vittorio Emanuele II:

Io sono veramente stufo delle attribuzioni gratuite a me di tante cose e parole e scritti, e specialmente epigrafi, che io aborro.

Non solo, però proteste e rettifiche. Anche articoli di tono più elevato, come la commemorazione di Aurelio Saffi o il suo consenso alla partecipazione di patrioti italiani nella guerra della Grecia contro la Turchia.

Il banchetto con D’Annunzio

Venne il D’Annunzio a Bologna, e sciolse e versò, sulla soglia di casa del Maestro, le rose del suo omaggio. Furono invitati a banchetto, dal “Resto del Carlino” i due poeti, e l’uno, tagliata una mela, con disinvolta eleganza ne offriva metà all’altro, che accettava impacciato e irsuto.

Il banchetto del 1901 con Carducci e D’Annunzio, i due più grandi e famosi poeti dell’epoca, nella sede di Piazza Calderini, fu un grande successo del giornale. Un evento non privo di palpabile tensione, colta dai testimoni presenti. L’Immaginifico cercò più volte a suo modo di attaccare discorso e rendere omaggio al Maestro più anziano, ricevendo impassibile le sue risposte burbere. Nel complesso l’incontro andò abbastanza bene, suggellando tra i due un momento, se non di simpatia, di reciproco rispetto.

Adolfo Albertazzi novelliere

Tra gli scrittori bolognesi, che collaborarono assiduamente al “Carlino", vi fu uno dei più affezionati allievi di Carducci, Adolfo Albertazzi, novelliere e insegnante dell’Istituto Tecnico. Diresse l’edizione popolare delle Opere del grande poeta, curando di persona alcune raccolte, quali i Giambi ed Epodi (1910), le Rime nuove (con Renato Serra, 1910), le Odi barbare (1917) e altre.

Essendo stato scelto dal Maestro come correttore di bozze, era di casa in via del Piombo ed ebbe modo di raccontare in diversi articoli del giornale le esperienze accanto a lui, poi pubblicate nel volume Il Carducci in professione d’uomo (1921).

Sul “Resto del Carlino” pubblicò anche il romanzo d’appendice Sorellina (poi in volume con il titolo In faccia al destino, 1906), che non ebbe grande fortuna.

Da Prezzolini a Biagi

Durante il fascismo il “Resto del Carlino” passò sotto il controllo del PNF e di ras potenti quali Leandro Arpinati e Dino Grandi. Ebbe direttori come Mario Missiroli e Giorgio Pini e collaboratori prestigiosi quali Giuseppe Prezzolini e Curzio Malaparte.

Nel 1936 Mussolini in persona inaugurò la nuova sede in via Dogali (ora via Gramsci), un edificio imponente, dominato da un’alta torre littoria, che durante la seconda guerra mondiale venne parzialmente distrutto da un bombardamento.

Nel 1969 un nuovo cambio di sede portò il “Carlino” nella periferia nord-orientale di Bologna, in un moderno complesso progettato da Enzo Zacchiroli. Nel dopoguerra ebbe tra i direttori Giuseppe Spadolini, che fu poi Presidente del Consiglio, e Enzo Biagi, già cronista del giornale negli anni quaranta, all’inizio della carriera e in seguito giornalista e scrittore di grande popolarità.

Approfondimenti
  • Dino Biondi, Alfredo Oriani, in: I grandi di Romagna. Repertorio alfabetico dei romagnoli illustri dall'unita d'Italia ad oggi, a cura di Mauro Tedeschini, Bologna, Poligrafici editoriale, 1990, pp. 110-112
  • Dino Biondi, Il Resto del Carlino 1885-1985. Un giornale nella storia d'Italia, Bologna, Poligrafici Editoriale, 1985
  • Claudia Culiersi, Paolo Culiersi, Carducci bolognese, Bologna, Patron, 2006, p. 26
  • Manara Valgimigli, Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1965, p. 342