Casa - Via Marsala

via Marsala, 17

Uno spiccato odore non proprio di spazzatura, ma di cose, di detriti di carta e di cenci, di scatole e di coperchi di cartone: le scatole di cartone negli infiniti loro usi domestici, e di frammenti di oggetti decaduti e sommersi nel naufragio di una vecchia casa di piccola borghesia, era quello che colpiva entrando nella stanza bolognese di De Pisis ...

(G. Raimondi)

Nel novembre 1915 Filippo de Pisis si iscrisse alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna. Al mattino, alle otto e mezza, seguiva le lezioni di storia dell'arte del prof. Supino, che spiegava la pittura ferrarese e bolognese del Quattrocento. Al pomeriggio andava coi compagni nelle chiese bolognesi a conoscere dal vivo le opere viste a scuola sulle diapositive.

Ma allora la sua vocazione era soprattutto letteraria. Era "carico degli scartafacci di opere finite e altre in gestazione": brevi novelle, saggi di ogni tipo, poesie.

L'ambiente letterario bolognese, nel quale tentò con ogni mezzo di farsi riconoscere, guardò all'inizio con diffidenza e ironia questo personaggio eccentrico, buffo e patetico, che si autodefiniva filosofo e poeta, ma anche accademico e naturalista.

La recensione, nel marzo 1916, dei suoi Canti della Croara sulla rivista letteraria "La Brigata" fu, ad esempio, una chiara stroncatura: i redattori Binazzi e Meriano si dissero decisi a lasciare De Pisis "alle riviste di manica troppo larga dove la sua finta modestia e la sua umilissima prosa lo fanno penetrare".

Dal gennaio 1917 il giovane prese alloggio in città in via Marsala 17, presso un'anziana signora. La sua finestra si affacciava sull'ingresso dell'antico palazzo Grassi, sede di comando militare. In piena guerra, dal portone accanto all'alto porticato di legno e selenite, entravano e uscivano continuamente soldati e ufficiali di ogni grado.

De Pisis guardava incantato - a volte assieme all'amico Raimondi, che andava a fargli visita - "quel traffico regolato di militari". Con il suo occhio attento di artista, interessato a "esemplari efebici che accendessero la sua fantasia", aveva imparato a riconoscerne alcuni. Al giovane attendente del colonnello, seguito fino al mercato, regalò un giorno un grappolo d'uva: "Con quel grappolo d'oro in mano, sembrava un piccolo dio della Grecia".

Più che disegnare o dipingere, in quel periodo de Pisis scriveva continuamente, su tutto ciò che aveva apparenza di carta: su quella bianca da quaderno, ma anche su quella gialla da fornaio o grigia da macelleria. Oppure su vecchi calendari, dove la sua scrittura fitta, intricata, si insinuava perfino nella parte stampata.

Lavorava sempre, diceva di poter scrivere di giorno e di notte: "L'ispirazione non mi abbandona mai". Si paragonava ad un mite coniglio, continuamente impegnato a fare l'amore. Gli amici lo chiamavano Gigi il Mite e a lui questo nomignolo pascoliano non dispiaceva.

Learn more
  • Nico Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore, Torino, Einaudi, 1991, pp. 25-29
  • Marilena Pasquali, De Pisis e Morandi (senza dimenticare Raimondi), in: De Pisis en voyage: Roma, Parigi, Londra, Milano, Venezia, a cura di Paolo Campiglio, Cinisello Balsamo, Silvana, Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca, 2013, p. 44
  • Giuseppe Raimondi, I divertimenti letterari (1915-1925), Milano, A. Mondadori, 1966, pp. 105-108