Il colera si diffonde
L'epidemia di colera esplode a Bologna il 29 maggio: un ortolano di Massa Lombarda manifesta in pieno centro i sintomi della malattia. Ricoverato al Lazzaretto di S. Lodovico, muore pochi giorni dopo. Restano colpiti anche la donna che lo ospita in via del Pratello e i vicini di casa.
La diffusione del colera in tutta la città e nel contado è rapidissima. Vi sono almeno tre focolai: nel centro cittadino, nella zona del canale di Reno e in quella del porto. Nel borgo di San Leonardo, invaso dall'epidemia, muoiono soprattutto donne.
A metà giugno, con una trentina di ricoveri al lazzaretto, l'apparato sanitario entra in funzione 24 ore al giorno. Alla fine di giugno, a un mese dall‘inizio del contagio, i casi sono 134 e i morti 96.
All'Ufficio Centrale Sanitario, situato nel Palazzo del Podestà, si affiancano quattro Uffici di Soccorso di Quartiere, già attivati nel 1836, ognuno con una farmacia annessa e personale incaricato per le visite, le disinfezioni e i ricoveri.
Altri Uffici di Soccorso sono insediati in varie località della periferia: Arcoveggio, San Giuseppe, S. Egidio, San Ruffillo, Bertalia, Alemanni.
Presso l'Oratorio dei Filippini in via Galliera e presso la Società di San Vincenzo sono attivate strutture di soccorso per le famiglie povere: medici e confratelli portano nelle case degli ammalati medicine e conforto religioso.
Il numero dei contagiati sale comunque rapidamente, raggiungendo i 160 al giorno. Viene quindi decisa l'apertura di un altro lazzaretto, in una parte del Ricovero dell'Opera Mendicanti. Il responsabile dott. Gaetano Scandellari, coraggiosamente, vi si chiude dentro, per uscirne solo in autunno, a morbo cessato.
Altri ricoveri sono presso l'Ospedale Sant'Orsola per i colerosi malati di mente e in via San Felice, accanto alla chiesa di Santa Maria della Carità, per i carcerati.
Un altro lazzaretto è in via delle Lame. L'ospedale degli Abbandonati è utilizzato per i soldati austriaci infettati. In seguito ospiterà oltre cento bambini, rimasti orfani per il terribile morbo.
Nel territorio bolognese sono colpite oltre 20.000 persone: in città ne muoiono oltre 3.500 e quasi 12.000 in provincia.
Bologna assume una veste spettrale, con cadaveri insepolti per le strade (ad esempio nella parrocchia di San Ruffillo) e cittadini che fuggono nella campagna. Le scuole rimangono chiuse e i negozi vuoti. Nel ricordo di Giuseppe Bosi
"ogni casa era in pianto; lettighe di morti, e di morienti percorrevano continuamente le vie quasi deserte; taceva, per non atterrire di più, ogni lugubre tocco dé sacri bronzi, intantoché quel silenzio istesso più eloquente del suono, alto divulgava a' superstiti, che i moribondi eran tanti, e il morire sì spesso che tregua non v'era; e muto nunzio di morte nel fondo più secreto del cuore, anziché scemare, aumentava la costernazione e lo squallore. In breve, infieriva il Cholera".
Nonostante tutto però, contro il parere della Commissione Sanitaria, si tengono affollate funzioni religiose. L'8 luglio oltre 4.000 persone accompagnano “coi ceri accesi” la Beata Vergine di Borgo San Pietro nella basilica di San Petronio.
Numerosi casi di colera si hanno anche tra i soldati austriaci di stanza in città (270 ricoveri e 94 morti).
Tra le cause principali della notevole morbilità e mortalità di questa epidemia è da sottolineare l'inquinamento delle fonti di approvvigionamento idrico.
A Bologna non esiste un sistema fognario efficiente, vi sono canalette che ricevono acque nere dalle abitazioni - ma anche dalle lavorazioni industriali - molto pericolose per la propagazione delle malattie infettive.
Vi è inoltre l' “indecenza” del Canale di Reno, che scorre attraverso Bologna e le cui acque sudicie sono utilizzate per lavare panni e pezzuole, fare bagni, innaffiare le strade e persino per preparazioni alimentari, quali la diluizione del mosto e del vino.
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