Le stragi di Cesena e Forlì
Le truppe pontificie, agli ordini del cardinale Giuseppe Albani e del colonnello Antonio Barbieri, già comandante del Presidio di Bologna, entrano nelle Legazioni con l'assenso delle grandi potenze.
Duemila armati a disposizione del Governo provvisorio con tre cannoni - due dei quali fusi a Forlì da un corto Balestri, fabbricatore di campane - si dispongono a resistere sulla collina della Madonna del Monte, fuori Cesena. Tra essi numerosi studenti provenienti da Bologna.
Il contingente papalino, composto in gran parte di "malandrini", è forte di quattromila uomini, con trecento cavalli e otto pezzi d'artiglieria.
Il 20 gennaio, a mezzogiorno, le milizie di Albani vanno all'assalto dei resistenti romagnoli e dopo una battaglia di circa tre ore li travolgono. I Civici si ritirano, lasciando sul campo circa 200 morti e molti feriti.
I soldati allora si abbandonano a devastazioni e saccheggi. Le chiese di Cesena vengono invase e ciò che non può essere portato via viene distrutto. Neanche gli altari sono risparmiati.
I soldati maltrattano tutti, proprietari e domestici, feriscono infermi e bambini. Sono messi a sacco monasteri e santuari, compresa l'abbazia di Santa Maria in Monte, cara a Pio VII.
Una spietata carneficina di gente inerme è affiancata “alla rapina e al saccheggio“.
Il giorno successivo, Forlì è teatro di un'analoga rappresaglia. I cittadini accolgono con timore le truppe pontificie, senza alcuna provocazione e facendo atto di sottomissione.
La giornata scorre tranquilla, ma verso sera un colpo di fucile casuale scatena l'allarme e gli assalti contro i cittadini inermi.
Vengono colpiti tutti coloro che capitano davanti ai soldati, i quali sparano contro le finestre delle case e contro le chiese.
21 morti rimangono sul terreno e oltre 60 feriti. Il cardinale Albani entra in città il giorno successivo e affida l'ordine pubblico ai suoi fedeli centurioni.
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